giovedì 28 ottobre 2010

Storia di streghe sannite

Il Beneventano è da secoli visto in correlazione alla leggenda delle streghe, danzanti nelle notti di luna piena intorno ad un noce maestoso che germogliava sia d’estate che d’inverno. “Unguento unguento, mandame a la noce de Benevento, supra acqua et supra vento, et supra ad omne maltempo!” Canti e figure di streghe caratterizzano ancora oggi i sogni di queste terre antichissime, visitare i paeselli dai vicoletti stretti e tortuosi con vecchie casette diroccate è sperimentare l’incantesimo di posti senza tempo, dove il passato è ancora presente. Il Beneventano è una terra mistica, da esplorare in silenzio, per lasciarsi catturare dall’eco di voci millenarie e dall’atmosfera di alchimie, che consentono al visitatore curioso e attento di vivere la sua segreta magia.
Nei paesini vivevano le streghe ‘janare’, a cui la superstizione attribuiva la capacità di guarire dal malocchio, dai disturbi di mente e dai malanni fisici, ma anche la capacità di mandare in malora i raccolti, di fare malefici e di preparare filtri d’amore. A quei tempi c’erano anche i licantropi, che nelle notti di plenilunio si svestivano, si rotolavano nel fango dei vicoletti e ululavano alle stelle.
Antica credenza era che le streghe si riunissero nelle notti di plenilunio intorno ad un noce secolare, per banchetti e ammucchiate erotiche, che volassero con scope e caproni in virtù di speciali unguenti, che alla luce del sole si trasfigurassero in serpi per attendere così le tenebre.
Convinzione radicata da secoli era che le streghe entrassero di notte nelle case, maleficando con la loro magia i componenti della famiglia. Per impedire quindi che entrassero, bisognava mettere dietro l’uscio di casa la scopa perché le streghe erano costrette a contarne i fili di saggina e sbagliando avrebbero ricominciato ogni volta daccapo, così la notte sarebbe passata, o un ferro d’asino cosicché era ugualmente impossibile che le streghe conoscessero quanti passi avesse dato l’animale con quel ferro e tra le incertezze sarebbe arrivato il primo chiarore del mattino, altri espedienti erano una falce spezzata o della crusca.
Se si riusciva a percuotere una strega si poteva stare al sicuro dai malefici per diverse generazioni, così avveniva che anche donne erroneamente considerate tali venivano picchiate.
A Baselice vi era una strega celeberrima, che incantava le messi rendendole sterili e rendeva storpi i bambini con i suoi malefici. Considerata un male da estirpare, venne picchiata e giustiziata in una grotta, venne fatta a pezzi buttati poi in tre pozzi diversi.
Sempre a Baselice vi era la scuola della stregoneria, probabilmente nelle tenebre di una delle grotte naturali, la frequentavano le donne che volevano iniziarsi a quest’arte. Alla magia delle streghe venivano attribuiti diversi malefici, per guarire dai quali si ci rivolgeva ad esse che con certi intrugli ne promettevano la guarigione, se questa vi era, di conseguenza vi era amore per le streghe, altrimenti odio per sempre.
La scuola di stregoneria aveva una figura carismatica, ‘Mariucc a rosc’, una donna coi capelli rossi, canuti e arruffati tenuti raccolti con una forcina d’argento, sulle spalle uno scialle colorato i cui estremi erano uniti al petto da uno spillone metallico dalle sembianze di serpente. Prediva l’avvenire e dialogava coi diavoli che considerava intimi confidenti. Si sedeva sempre su una sedia di paglia dinnanzi alla sua catapecchia e lavorava la lana con i ferri per intere giornate, viveva con i proventi che venivano da gente impaurita dalle sue fatue minacce di stregoneria. A volte si estasiava sulle rive del Fortore, si svestiva, gesticolava stranamente come a fare scongiuri e diavolerie, si immergeva nelle acque torbide del fiume, poi si rivestiva e attraversava gli incolti per raccogliere erbe misteriose. Negli ultimi momenti della sua vita volle al capezzale del letto una figura diabolica, mentre chiudeva per l’ultima volta gli occhi asserì di vedere intorno a sé tante fiamme.
Di credenze nei riguardi delle streghe sono animati anche gli altri paeselli del Beneventano.Ciò che caratterizzava la storia delle streghe nel Beneventano era la semplicità e la frugalità estrema che contraddistingueva la quotidianità dei paeselli, che si presentavano come posti fatiscenti e pieni di tranquillità. Cadenti e sgretolate catapecchie con viottoli infangati dominavano la scena, la povertà era ovunque, vi erano tradizioni e costumi radicati da secoli.

martedì 26 ottobre 2010

Suora Edvige e l'elisir di lunga vita

Suora Edvige è presente sempre nei miei pensieri più belli, la ricordo che con commovente bontà, mi teneva la mano nelle sue minute e delicatissime, i suoi occhi sorridenti e sempre vivaci, l’aria giovanile nonostante avesse più di cent’anni, mi viene così da pensare che la vecchiaia quando è vissuta con tanto ottimismo e tanto amore non è una cosa che fa spavento.
Disquisivo con lei per ore, era un’autentica sorgente di rimedi e consigli che distribuiva con generosità e semplicità. Suora Edvige era religiosa delle Suore della Carità di Santa Giovanna Antida da Touret, era stata maestra di ricamo e cucito, educatrice dei bambini, aveva sempre rincuorato i bisognosi, aveva con passione annunciato la buona novella, aveva portato l’amore ovunque, quell’amore che, come diceva lei “cambia ogni cosa”. “La religiosità mi ha indicato la via della felicità” così diceva con una dolcezza infinita, e chi vedeva il sorriso che le illuminava il volto non poteva certo dubitarne.
Anche se aveva più di cent’anni suora Edvige non viveva il crepuscolo della sua esistenza nel riposo e nella contemplazione, contrariamente si svegliava all’aurora e iniziava con le lodi al Signore, poi metteva ordine in convento e scendeva una lunga scalinata che la portava in Chiesa, dove partecipava attivamente alla Santa Messa e ogni mattina riceveva l’ Eucarestia. Per suora Edvige era importante il trovarsi a mensa, davanti a un buon piatto di minestra fumante, diceva lei “è buffo e commovente insieme, i taciturni diventano espansivi e tutti sorridono un pò, ecco perché Il Signore le cose più belle le ha fatte a mensa”.
Era golosissima di dolci. A dormire non andava mai tardi, diceva lei “la mente e il corpo hanno bisogno del giusto riposo”.
Quando il sole spumeggiava nel cielo che si tingeva di un tenue azzurro, suora Edvige amava fare delle passeggiate nel bosco insieme a suor Paolina, per deliziarsi degli odori e dei colori dei fiori.
Ricordo che le chiesi qual’era la relazione che ciascuno di noi dovesse avere con il Signore, lei mi rispose con un sorriso che le partiva dal profondo del cuore, quel sorriso che aveva ridato letizia a molti “se ti capita all’improvviso di sentirti spento, stanco, stressato... Che fai? Piangi? Rompi tutto? Te la prendi con qualcuno? Perdi la testa? Ma io ti dico che star male non significa niente. Perché anche se sei rifiutato, intimorito, detestato, sminuito... C’è qualcuno lassù che sa quello che vali e quanto sei grande, e quello che più importa è che... Ti ama infinitamente.”
L’elisir di lunga vita di Suor Edvige era mettere il cuore in ogni cosa che faceva, anche nelle più semplici, ed è nelle cose più semplici che lei trovava la serenità e l’amore!

lunedì 25 ottobre 2010

Le delizie dell'alveare

La prima volta che ho visto delle arnie è stato in campagna dal maestro Marruchella, che con certosina pazienza si dedicava alle api, mi fece così varcare la porta dell’incantevole mondo di queste laboriose creature e me ne innamorai immediatamente.
Simmetricamente erano disposti gli alveari, tra i ciliegi che si innalzavano slanciati al disopra del tetto di una casettina, le cime frondose facevano frusciare in modo appena percettibile il loro fresco fogliame verde scuro, accompagnate dal suono del ronzio delle api. Tutte le ombre dal tettuccio della casetta agli alveari ricadevano scure e corte sull’erba ricciuta che spuntava tra le arnie. La figura slanciata del maestro con la testa argentea che riluceva al sole si delineava accanto alla porta della casetta. Il maestro lavorava con pacatezza sfregando con un lembo della camicia il volto sudato riarso dal sole e sorridendo con fare mite e gioioso. Nell’apiario tutto era così confortevole, tranquillo e limpido, la figura del maestro con poche rughe a raggiera attorno agli occhi, con un piccolo neo sul mento, con ampie scarpe calzate ai piedi enormi e il sorriso bonario e soddisfatto completava la tela. Il sorriso non gli abbandonava mai il viso abbronzato e lui girava tra le api che gli si posavano ovunque ricoprendolo e mai pungendolo.
Mi diceva il maestro delle api, così lo chiamavo da bambino “Dove sono finiti quei fiori che col profumo ci inebriavano?Dove sono finite quell’essenze che conferivano al miele il sapore genuino e ricco? Dove sono finite le corolle che con i mille colori dipingevano queste dolci e verdi colline? Le api appaiono ubriache e stanche!”
L'alveare rappresenta una miniera inesauribile di sostanze: miele, polline, cera, propoli, pappa reale, che per le loro proprietà, permettono trattamenti efficienti su molteplici patologie.
Miele di acacia, di castagno, di tiglio, di eucalipto e millefiori: tante varietà quante sono le fioriture, sostanzialmente cambia il colore, si intensifica il profumo e varia il sapore, ma resta identica la caratteristica benefica. Il miele ha proprietà terapeutiche, ne basta un cucchiaino preso con regolarità affinché esplichi effetti antisettici, calmanti, lassativi, diuretici e accresca il benessere in generale. Anticamente il miele veniva impiegato dalle nostre nonne in mille modi, disciolto nel latte caldo o anche unito al succo del limone o all’infuso dei petali di rosa diveniva così una lozione benefica per il viso, o anche disciolto in acqua calda diveniva una lozione che dava luminosità ai capelli.
Il polline dei fiori è raccolto dalle api bottinatrici e depositato nelle cellette dei favi. Quotidianamente ne basta un cucchiaino per ristabilire la buona funzionalità intestinale, stimolare ed aumentare l'energia vitale. Svolge un'azione antianemica ed agisce da antidepressivo.
La pappa reale prodotta dalle api è il nutrimento esclusivo della regina, preso al cambio di stagione è uno stimolante delle attività funzionali, suscita una sensazione di tranquillità, combatte i disturbi intestinali e l'anemia, agisce contro le astenie, apporta un miglioramento dell'umore ed una sensazione di benessere.
La propoli è composta da sostanze resinose, gommose, balsamiche, raccolte dalle api e portate all'alveare. Le virtù terapeutiche della propoli sono tantissime, in particolare antisettiche e antibiotiche, dispiega gli effetti a beneficio dell'apparato respiratorio e dell'apparato digerente.La cera secrezione delle api viene impiegata in diversi modi, anche in cosmesi. Il veleno delle api è risultato un medicamento per alcune patologie quali artrosi, artrite reumatoide e sciatalgie.
Francesco il poverello di Assisi durante l’inverno si preoccupava di far preparare per le api, miele e vino cosicché queste potessero combattere il freddo. Lodava la laboriosità e la finezza d’istinto che il Signore aveva elargito alle api “ Laudato sii mi Signore per sorelle api, le quali sono laboriose e preziose, impollinano i fiori e ci allietano con le delizie dell’alveare”.

domenica 24 ottobre 2010

I rimedi della nonna

Tra le reminiscenze della mia infanzia ci sono le passeggiate con nonna Beatrice per le viottole che portavano alla casetta di campagna. Una fila di girasoli, simili a giganti dorati, si ergeva a ridosso della casetta in pietre, mandorli dalla corteccia increspata e argentei pioppi le facevano da cornice. Una casetta con la pavimentazione d’argilla ben lisciata, zeppa di bauli e bauletti, gomitoli di lana multicolore, barattoli di vetro con foglie e petali essiccati di diverse piantine, e tanti brandelli di vecchi abiti che si ammucchiavano nei cantucci. Il cigolio delle porte echeggiava nella casetta, le sedie erano in legno di noce, avevano alti schienali torniti senza lacche, ne tinture, di quelle per le quali solitamente si distingue la bell’epoca antica.
Mia nonna Beatrice era una vecchietta esile dal cuore semplice, sorrideva sempre sia che stesse raccontando qualcosa, sia che semplicemente stesse ascoltando. Sul viso e nei suoi piccoli occhi neri era dipinta una tale bontà e una tale disponibilità ad offrire tutto quanto aveva di meglio. Le rughe leggere erano disposte sul viso con una tale piacevolezza che un artista le avrebbe probabilmente rubate. In quelle rughe sembrava possibile leggere tutta la sua vita luminosa e tranquilla. La nonna mi diceva sempre: “dobbiamo vivere nella letizia, alimentarla in noi stessi ed espanderla intorno a noi”, vivere nella letizia non vuol dire non vedere le brutture, vivere nella letizia vuol dire vivere nella consapevolezza estrema testimoniando nel mondo buio una diversa appartenenza dell’essere. La letizia è un linguaggio di sguardi ed è potentemente eversiva, poi aggiungeva “cerca le cose essenziali, vivi con semplicità le relazioni, cura gli affetti, ama la vita,” e questi sono i valori essenziali per non smarrirsi in un mondo che cambia in continuazione.
Con l’immaginazione rivivo i piacevoli momenti delle passeggiate… Erano calde giornate di giugno, in assenza di aliti di vento. Il fogliame del bosco era gonfio di linfa, fitto e verde, solo qua e la cadeva qualche foglia ingiallita. I cespugli della rosa silvestre si presentavano coperti di fiori odorosi e nelle radure un mare di trifoglio da miele. La segale folta, alta, scuriva e ondeggiava, giunta ormai a metà maturazione, nei roveti i merli si chiamavano l’un l’altro, nell’avena e nella segale i fagiani ora chiocciavano, ora trillavano, il codibugnolo nel bosco solamente di tanto in tanto lanciava il suo canto e poi s’azzittiva.
Un giorno vidi la nonna seduta sull'erba che masticava mughetti: “sono buoni?” le chiesi, “sono buonissimi per chi è affaticato” lei mi rispose, poi aggiunse "e stasera, per cena, qualcosa di ancora più efficace per il batticuore, i finocchietti". La nonna assaggiava del mughetto solo il fiore, perché le bacche rosse, sono tossiche, si formano finita la fioritura ed hanno un cattivissimo odore a differenza del fiore che anche a distanza emana un gradevole e penetrante effluvio.
Le nostre nonne per il benessere, fino a qualche decennio fa ricorrevano ad antichi rimedi, con la modernità molti di questi sono stati dimenticati.
Mia nonna la sapeva lunga a proposito di rimedi curativi, raccoglieva radici, bacche e fiori, con cui preparava intingoli e intingoletti.
Nella sua credenza non mancavano mai i petali freschi o essiccati di papavero con cui preparava una tisana dalle proprietà terapeutiche sedative, decongestionanti ed espettoranti. Diceva lei con aria briosa e un pò mistica “il papavero tra i tantissimi fiori che crescono spontanei è sempre quello che fa più chiasso”, voleva con questa espressione lasciare intendere che tra i fiori era quello che richiamava maggiormente l’attenzione, e di certo aveva ragione, i suoi petali di colore rosso acceso, danno il sorriso al verde dei campi di graminacee. Altre erbe presenti nella credenza di mia nonna e dalle molteplici virtù benefiche erano i fiori di camomilla essiccati, le foglie di menta piperita, le bacche di ginepro, i semi di finocchietto silvestre.
La natura, fornisce anche toccasana buoni per la pelle, che dai nostri nonni la si voleva bianca e lucida, ritenendo la pelle scura e abbronzata un segno di popolanità propria delle contadine. Le nostre nonne raccoglievano la linfa della vigna ancora verde in un vasetto ben pulito, per spalmarla poi, in modiche quantità, sulle macchie della pelle. I chicchi ancora verdi dell' orzo, stemperati nel latte, davano un liquido lattiginoso che veniva impiegato per togliere le impurità delle pelle, rendendola così più lucente. La lanugine che riveste la parte interna del baccello delle fave verdi veniva sfregata ogni sera sul viso per ravvivarne il colorito. La farina di fave mischiata con il latte tiepido rendeva più chiara la pelle, togliendo quelle antiestetiche macchie che si formavano dopo la continua esposizione al sole.Un altro cosmetico si otteneva raccogliendo ed essiccando la malva che si faceva poi bollire col decotto di piantaggine, con la lozione ottenuta si detergeva la pelle macchiata dal sole, risultando così più luminosa.
Oggi si ricorre sempre di più ai rimedi con le erbe, forse sarà una tendenza del momento, forse semplicemente un'esigenza dovuta alla voglia di tornare alle buone vecchie cose di una volta.
È comunque opportuno un consiglio iniziale, le erbe fanno sicuramente bene in moltissimi casi, ma infusi e decotti vanno assunti con cognizione, ed è bene rivolgersi sempre ad erboristi.
La semplicità della natura può a volte risolvere i problemi della salute, perché noi siamo natura, la natura è intorno a noi e il nostro bene è natura.

sabato 23 ottobre 2010

A scuola con pigrizia

È interessante ascoltare i vecchietti che descrivono a puntino avvenimenti di mezzo secolo fa… i placidi paesaggi, i boschi con le martore, il silenzio della notte, le varietà dei fiori che crescevano lungo i corsi d’acqua, il bianco della neve, i canti e le danze nei casolari nei momenti della mietitura e della vendemmia. La cosa che ricordano fin troppo bene raccontando della loro infanzia, è che a scuola andavano sempre con pigrizia. Per le viottole di campagna, sotto il sole ardente o nella densa nebbia che consentiva di vedere a stento ad un palmo dal naso, sulla candida neve delle gelide giornate invernali o per le sinuose e verdi colline primaverili, attraverso incantevoli boschi e corsi d’acqua pieni di letizia, si vedevano bambini vestiti in mille modi, diversi ma egualmente sconci, che con la cartella sulle spalle o con l’abbecedario e il quaderno sotto al braccio, facevano tantissimo cammino per recarsi a scuola e poi per ritornare a casa. Le viottole brulicavano di bambini che s'accalcavano davanti alla scuola dove venivano accolti dai rispettivi maestri e maestre. Alla scuola di paese in un secondo momento si aggiunsero le scuole di campagna, volte a rendere meno complicata la vita dei bambini che vivevano nei casolari. Le scuole di campagna si trovavano nelle località di Castelmagno, Zolfatara, Sant’Angelo, Setteluci e Marano. Nelle piccole scuole di campagna, l’insegnante all'inizio delle lezioni, suonava la campana tirando una funicella, per richiamare l’attenzione dei bambini che arrivavano dai più lontani casolari. Dato che era impossibile percorrere quotidianamente lunghi cammini in bicicletta o a piedi, l'insegnante doveva abitare nella scuola se c'era qualche cantuccio disponibile, o farsi ospitare da qualche famiglia di contadini. Se le maestre erano sposate e avevano dei figli, dovevano stare via di casa ed affrontare tanti disagi, così spesso decidevano di non sposarsi per non farne risentire alla famiglia. Non era una vita molto facile, anche se, rispetto a tanti altri lavoranti, la maestra aveva un compenso migliore ed era molto stimata dalla gente. Le scuole di campagna solitamente erano fatiscenti, con l’intonaco scrostato e con le aule strette, il crocifisso era sempre presente. Quando c’era eccessivamente freddo le maestre si riscaldavano con il braciere, i bambini contrariamente battevano continuamente i denti. Gli scolari sedevano su lunghe panche di legno, tutti vicini e stretti, sui banchi c'erano tanti buchetti con infilati i calamai contenenti l'inchiostro, nei quali si intingevano i pennini per poter scrivere. Nella scuola di paese gli scolari erano numerosi e le classi non erano miste, per le classi femminili c'era una maestra e per quelle maschili un maestro. Invece in campagna, spesso c'era una sola classe, mista e che comprendeva gli alunni di tutte le classi. Gli insegnanti erano, eccessivamente severi e bocciavano con una certa frequenza. Le punizioni erano particolarmente dure: bacchettate sulle mani, ritti dietro la lavagna, in ginocchio di fronte alla classe con le braccia alzate e a volte finanche con ceci e fagioli sotto le ginocchia. Gli alunni indisciplinati o ‘somari’ venivano messi all'ultimo banco ‘il banco dei somari’ o dovevano scrivere tante volte sul quaderno o alla lavagna ‘io sono un asino’. Gli alunni più svogliati e indisciplinati, quando prendevano brutti voti o combinavano qualche birbanteria, venivano svergognati dalla maestra, che infilava loro sulla testa due grosse orecchie d'asino di cartone e li faceva fare il giro delle aule fra le grandi risate degli altri scolari. Alcuni vecchietti mi hanno raccontato delle scenette che sono restate impresse in maniera indelebile nella loro mente, scenette che messe insieme rendono un po’ l’idea della scuola di oltre mezzo secolo fa:
“…c’era una sola maestra, molto severa, che insegnava tutte le materie e ci faceva stare zitti, battendo la bacchetta sulla cattedra”;
“…al mattino presto infilavo ai piedi dei vecchi scarponi con la suola appesa, afferravo la cartella di cartone e, di corsa, mi avviavo a scuola percorrendo tantissima strada a piedi. Appena giungevo a scuola, aprivo la cartella di cartone legata con una funicella, prendevo l'astuccio di legno contenente la penna con il pennino e mi apprestavo a scrivere, dopo aver intinto il pennino nel calamaio”;
“…per delle piccole birichinate finivo in ginocchio sui ceci, o prendevo fischiettanti bacchettate sul palmo delle mani.”;
“…a metà mattinata la ricreazione, durante la quale si guastava la merenda: qualche castagna bollita o delle noci, una mela o anche un pezzo di pane, poi giocavamo tutti insieme o a gruppetti con la trottola di legno o con le biglie ” ;
“…la maestra era mezza guercia, aveva anche la bocca storta e spesso quando parlava sputava. Aveva anche un po' di gobba e veniva sempre con un bastone che usava per appoggiarsi e per dare le bacchettate”;
“…le maestre erano molto severe e tutte le mattine controllavano se le mani erano pulite, se le unghie curate e il grembiule senza macchie, altrimenti si ricorreva alle punizioni che consistevano in bacchettate sulle mani o anche in ginocchio dietro la lavagna sopra ai semi di granturco”;
“…c’era disciplina, era tutt’altra cosa, ci si accontentava di poco, si camminava parecchio a piedi, non c'era tutto il benessere che c’è oggi, ma non ci si pensava e ci sembrava bello in quel modo”.
Certo che oggi le scuole sono cambiate un bel po’, l’unica cosa che è rimasta penso sia la pigrizia!

'Tavern e cantin'

Nei primi decenni del ‘900 San Bartolomeo era un paesino tra le dolci colline del Beneventano, punteggiato qua e la da pagliai, casupole e poche masserie vecchie di secoli, tra boschi di querce e secolari ulivi che con i loro rami tortuosi di notte sembravano anime imploranti che protendevano le braccia alle stelle.
Il paesino appariva disseminato di catapecchie, la gente vestiva per lo più con stracci grezzi, a sera la fievole luce del focolare rendeva piacevole la conversazione, vi era comprensione e anche se a tavola c’era sempre la solita polenta di mais si era particolarmente uniti e il cuore era quasi sempre caldo di amore.
Le ‘tavern’ erano ricetti per la notte, dove da sotto la tettoia si intravedeva il cielo stellato, si dormiva nelle mangiatoie di legno sul fieno odoroso, al caldo dell’alito dei cavalli che sbuffando cercavano un po’ di fieno. Ricoveri dove si trovavano zingari, briganti, mercanti, dove i suoni erano costituiti unicamente dallo sbuffare, dal rimestare nella paglia e dal nitrire rabbioso e stridulo dei cavalli che bisticciavano per una manciata di avena.
Se per un momento cercassimo di concepire con la fantasia quell’epoca, ci ritroveremmo tra case in pietra, vicoletti strettissimi e pieni di lerciume dove non si saprebbe in che direzione volgere gli occhi e il naso per la porcheria, porcelli attorniati da sciami di mosche, galline razzolanti nel fango, muli scalcitanti sull’acciottolato, e in questa cornice vedremmo chi arriva alla ‘tavern’ col proprio carretto, o a dorso di mulo per fare affari in borgo.
Di ‘cantin’ ve n’erano di scalcinate e di accoglienti, offrivano piatti semplici e genuini che venivano accompagnati dai boccali di vino.
A ‘cantin’ di ‘zia Celestin’, essenziale, semplice, era una delle antiche locande con la storica cucina e le pentole di rame, le botti piene di vino, i tavoli in legno di noce e le sedie impagliate, i boccali in creta in cui bere il prezioso nettare d’uva.
‘Zia Celestin’ con le sue ricette ha scandito i ritmi di vita di molti personaggi della nostra terra, le sue ricette semplici e genuine, confezionate con pochi prodotti a disposizione, ma non per questo meno gustose, evocavano odori e sapori di un tempo passato.
A ‘cantin’ di ‘zi Giorg’ era un coloratissimo angolo di gastronomia del paesino, testimone d'ambienti, profumi e sapori genuini. Il lunghissimo tavolo di noce, il ciocco di legno che scoppiettava sotto la grande cappa del camino dove alla catena era sempre attaccato un pentolone, in cui bolliva a gran fuoco carne di ogni qualità. Il rame da cucina ricopriva i muri imbiancati di calce ingiallita dal fumo del focolare, da lucerne ad olio e da fumose candele di sego che spandevano insieme alla loro fioca luce un acre odore, nella parete di contro imperava lo scaffale ad archetti e colonnine, con disposti sui ripiani i boccali e i tegamini in creta . Il vino si beveva, per accompagnare qualche bruschetta, i fagioli con le cotiche, i ‘turcinell’ di fegato, a ‘zuppett’ di peperoni, la polenta con i ceci, o meglio si mangiava anche, per accompagnare l’eccellente vino.
Una scena che univa le due cantine era quella di ubriaconi che boccale dopo boccale, tra risate e arringhe affumicate finivano con il dimenticarsi delle brutture della vita, di ubriaconi che barcollavano per ritirarsi a casa e non ricordandosi la porta finivano con l’addormentarsi su qualche ‘jafio’, o visto il freddo si infilavano carponi in qualche ‘roll’ per passare la notte col porcello, al quale prima di addormentarsi finivano col raccontargli qualche storiella e cosi tra il russare e il grugnire faceva mattino.
Poi c’era la ‘ciculatera’di ‘zia Gemm’ dove si poteva consumare, oltre al cioccolato caldo in tazza, il caffè, i cordiali, i dolciumi e i biscotti. E dove ci si intratteneva in interminabili conversazioni e in giochi con le carte.
Da non dimenticare la merceria di ‘zia Clar’, una donna di statura piccola, vestita con una camicetta nera ricamata e una gonna di lana grigia, con la pelle del viso di colore roseo, la fronte stretta e solcata da piccole rughe, gli occhi piccoli e briosi sotto degli occhiali delicati, le labbra sottili, il mento appuntito e gli zigomi paffuti. Nella sua merceria, si trovavano calze, elastici, lana, bottoni, camicette, maglie, spolette e tantissime piccole cose. Sul bancone di legno vi erano un paio di barattoloni di vetro, uno con caramelle assortite e l’altro con liquirizia. La tonalità della sua voce era silenziosa e nello stesso momento piacevole, era una persona di una dolcezza infinita.
C’era anche ‘zi Attilii tabacc’ di statura piccola e cicciotello, nel vicoletto sempre il solito nauseante odore della pece. Poi c’era la sartoria di ‘zi Guid tabacc’, minuscola, con un tavolo in legno scuro, la squadretta in legno, le forbici grandi, la macchina per cucire, era una persona sottile nei lineamenti e nei modi.
Lardo, trippa, farina gialla, candele, olio da ardere, carbone vegetale, a quei tempi il paniere della spesa era davvero povero, si spendeva quel poco per avere l’essenziale, se qualcosa restava si riponeva sotto il mattone per i momenti peggiori. La carne si mangiava poche volte l’anno, si bolliva per renderla più tenera. Si mangiava poco e male e tantissimi erano i bambini denutriti che nonostante a volte si contendevano una mela marcia con un cane randagio, o si rincorrevano affondando i piedi nudi nelle pozzanghere, o sui cumuli di letame stallatico sapevano essere sempre allegri come tutti i bambini di questo mondo.
In inverno, fuori la porta fischiava il vento e dentro crepitavano i ciocchi nel camino, la cui flebile luce portava la quiete. Quanto si è perduto di tutto questo! Per essere intimamente felici non c’è bisogno di avere di più, siamo già soffocati da troppe cose, sempre meno utili. C’è bisogno di vivere di più e di essere più pienamente se stessi, poi alla fine della giornata la coscienza sarà li, disposta a disquisire con noi e solo lei potrà darci la più sincera buonanotte.

venerdì 22 ottobre 2010

Un cuore sotto i cenci

Il barbone a volte artista a volte bighellone. Immerso in uno scenario dai colori tenui e impalliditi si trascina goffamente tra i platani. Infagottato di cenci fetidi, con il viso dall’espressione malinconica delineato da mille rughe, rovista fra le cianfrusaglie. Bisbiglia con un micetto che tiene nella tasca del pastrano rabberciato. Gelide le notti nel bosco tra le rovine di un antico casolare sotto il cielo stellato, a disquisire piacevolmente con il suo micetto spelacchiato che gli sta vicino, e che lo tiene di buon umore nei momenti bigi.

Il cerchio luminoso del sole si faceva strada tra la nebbia bianca come latte, l’orizzonte grigio lilla si allargava pian piano, ma restava sempre bruscamente delimitato dall’ingannevole muro di nebbia, per curiosità mi incamminai dietro a ‘Zìì Tommasin’, che camminava barcollando sulle gambe piegate, con la schiena leggermente ricurva, i capelli brizzolati e unti che spuntavano da un berrettino a tessuto scozzese. Vestiva solitamente con una giacca in tinta marrone, corta e rattoppata, la camicia imbrattata che usciva dalle maniche coprendo in parte le mani, consunti pantaloni beige e scarponi screpolati. Aveva il viso bruno con la barba grinza e gli occhi stanchi che guardavano remissivi e servili. La loro espressione si fondeva con quella delle labbra ricurve agli angoli, come in una espressione di beffa. Dopo aver rovistato un pò nella robaccia tirò fuori delle cianfrusaglie che portò con se. Giunto all’uscio di casa, mi sgranò gli occhi addosso con diffidenza, penso si era accorto che gli ero alle calcagna. La casa era una sorta di topaia, un portone di legno tarlato, una finestra in ferro di quelle di una volta con delle rimanenze di vetro, i muri a pietra ricoperti di calce bianca. Aprì la porta con una chiave in ferro e vi sgattaiolò dentro. Mi sarebbe piaciuto tantissimo darci una sbirciatina!
Poi c’era ‘Richett’, era un artista del ferro, a colpi di incudine e martello forgiava diversi utensili, incluse tagliole per volpi e briglie per muli. Viveva in una catapecchia, con un cagnolino e un corvo nero. Scompiglio e fetore erano le cose che decoravano la casetta, con un giaciglio di foglie di granturco, una credenza, un tavolo roso dai tarli e qualche sedia impagliata. Era solito disquisire con chicchessia, aveva una mediocre dialettica e la voce pigra. Fumava dei sigarotti che confezionava da se e che avevano un odore acre e pungente. Il gelido inverno e la calura estiva non lo intimorivano minimamente, era sempre lì con un cappello che dondolava da tutte le parti e che lasciava fuoriuscire i capelli luridi e bigi, il viso scarno con la barbetta crespa, gli occhi rotondi e il naso incurvato gli conferivano un’espressione di spossatezza, bontà ed indifferenza. I suoi occhietti del tutto tondi, le cui pupille non arrivavano alle palpebre facevano trapelare un’espressione di fantasticheria. La giacca stretta copriva una maglia lurida e scendeva su rozzi pantaloni a taglio largo che coprivano in parte sbrindellati scarponcini.
Poi c’era ‘Picern’ con il viso giallognolo e tondo, con l’imponente barba rossiccia, con i capelli increspati e gli occhietti piccoli, sempre bilioso e tenebroso. Il giaccone di montone, gli scendeva fin sulle ginocchia, rendendolo più goffo di quello che era e gli conferiva legnosità nei movimenti, e poi calzoni strappati e scarponi da minatore. Nelle notti di luna piena da buon licantropo ululava nei vicoletti del centro storico e la gente brontolava perché non riusciva a dormire. Viveva in un umido scantinato completamente in pietra, con le travi di legno putrescente, un giaciglio in erba essiccata, un caminetto che conferiva alla topaia un’affumicatura e un odore di muffa e muschio. Vi era anche un una panca tarlata e un tavolo annerito pieno di fenditure e nodi. Viveva con un gallo perniciato a collo oro e due galline rossicce che contraendo i bargigli assestavano colpetti con il becco zampettando di qua e di là. Una volta mi sono incamminato per curiosità dietro a questo straccione, era una calda giornata d’estate, senza un alito di vento. Il fogliame della macchia era gonfio di linfa, fitto e verde, solo qua e la cadeva qualche foglia ingiallita di frassino. I cespugli della rosa silvestre erano coperti di boccioli odorosi, nelle radure c’erano spighe dorate, nei cespugli di more i merli si rincorrevano, nell’avena e nell’orzo le quaglie ora chiocciavano, ora trillavano, l’usignolo di tanto in tanto faceva sentire il suo canto e poi s’azzittiva. Standogli alle calcagna giunsi ad un pagliaio, dove era solito dormire in estate in calda armonia con il verde.
Ed infine c’era un vecchio tracagnotto ‘Zii Lell’, con il viso bruciato dal sole ed incorniciato da una barba grigiastra e da capelli tosati, con gli occhi di un azzurro intenso, pieni di espressione con le palpebre semi abbassate che guardavano con un espressione curiosa e bonariamente spensierata. La bocca era piccola nettamente disegnata che quando sorrideva esprimeva una quieta sicurezza e una sorta di beffarda indifferenza nei confronti di tutto quello che lo circondava. Dalla ruvidezza della pelle, dalle rughe profonde e dall’innaturale curvatura della schiena, si capiva che la sua vita era stata una gran sfacchinata. Il suo abbigliamento era sempre lo stesso, un cappello misero di lana tinta petrolio, di quelli dei pescatori norvegesi, la giacca beige a quadretti strappata in più punti e un maglione di lana di colore arancio altrettanto sporco, dei pantaloni in tinta ottone rattoppati in più parti e ai piedi relitti di quelli che una volta erano pesanti scarponi invernali. In cinta una corda rozza con appesa una chiave di ferro. Viveva in una casetta dei primi del novecento.
Ogni mattina non appena il sole spuntava e sfolgorava sull’erba, non appena la rugiada si asciugava e si condensava in gocce e come un fumo leggero si disperdeva l’ultimo vapore del mattino, si recava in campagna, dove prestava certosina assistenza alle sue piantine.
Chi sono veramente questi barboni? Una cosa è evidente, anche sotto quei cenci c’è un cuore e meritano considerazione e accoglienza.