sabato 5 marzo 2011

Storie di briganti

I Briganti hanno da sempre affascinato poeti e prosatori che dando esalazione alla fantasia hanno creato personaggi leggendari, solitamente non privi di una carica di simpatia. Miseria, condizioni pessime di vita e arretratezza diedero vita a creature raccapriccianti della criminalità. Privi di ideali politici e senza alcuna prospettiva di un ordine sociale, scorazzavano per le campagne, tendendo agguati e rendendo insicure le poche viottole di fango che allacciavano i paeselli arroccati sulle boscose colline sannite. Contribuirono ad alimentare il brigantaggio le tasse eccessivamente gravose, la burocrazia e la perdita di usi civici, quali il legnatico e l’erbatico.
Le bande erano piccole comitive a cavallo, sulla cui groppa tenevano una bisaccia a doppia tasca, in cui vi erano viveri, munizioni e doppietta da caccia. Le bande comunicavano con colonne di fumo durante il giorno e con falò nella notte. I messaggi venivano trasmessi con speciali accorgimenti come stracci esposti alle finestre, intacchi sulle piante, rami spezzati, pietre accatastate, imitazioni di richiami di uccelli. La gente più povera non era ostile, anzi proteggeva i briganti, che erano visti come vendicatori di ingiustizie secolari. Per reprimere il brigantaggio fu approvata la legge Pica e furono inviati nel meridione i soldati e si commisero abusi come la fucilazione dì chi era trovato in possesso di armi, l’arresto dei sospettati ed altre misure punitive. I briganti risposero con non meno ferocia.
I briganti più celebri che caratterizzarono la scena di San Bartolomeo in Galdo nel primo decennio del 1800 furono i fratelli Vardarelli di Celenza così designati perché artigiani di finimenti ‘varde’ per giumente e muli. I Vardarelli misero insieme una banda di 200 masnadieri che incuteva trepidazione. Agli inizi del 1860 a San Bartolomeo vi erano due bande di briganti che compivano malefatte in paese, capeggiate dal ‘ Sargentiello’ e dal ‘Monachiello’.
Altri briganti che si presentavano con continue incursioni nel paese e nelle campagne di San Bartolomeo erano le bande del baselicese Antonio Secola, di Saverio Basile da Colle Sannita, di Giuseppe Schiavone di S. Antagata di Puglia e di Giambattista Varanelli di Celenza, tutti capi masnadieri che riconoscevano l’autorità di Michele Caruso di Torremaggiore.
Le prime voci sui banditi cominciarono a diffondersi nel maggio del 1861. Si cercò quindi di difendere i paesi che si ergevano desolati su queste colline con delle guardie nazionali.
Covo dei briganti prese ad essere il bosco di Mazzocca che si estendeva tra Baselice, Castelvetere, Colle e S. Marco dei Cavoti, da qui i briganti potevano con facilità piombare ora sull'uno, ora sull'altro paese.
Michele Caruso il famosissimo brigante che terrorizzò San Bartolomeo e i paesi contigui nacque a Torremaggiore nel 1837. L'abitazione in cui nacque e visse da bambino era una vecchia catapecchia dalle mura nere e umide, fra il sudiciume e i cattivi odori, illuminata dalla fiamma fuligginosa di una candela ad olio, dove non possiamo minimamente immaginare come quella gente vi potesse vivere, amare e soffrire.
Michele fin dall’infanzia si dimostrò capriccioso, poco rispettoso e brutale. Divenuto giovane si diede a fare il boscaiolo, il sensale di grano, il garzone del fornaio e il vaccaro. Quando Era cresciuto in una rozza famiglia di boscaioli, la mancata educazione aveva fatto in lui comparire l'atavismo. A differenza di tanti altri capi briganti, eseguiva le più importanti condanne per il solo desiderio di vedere soffrire. Ben presto fu rinchiuso nelle carceri di S. Severo, ma evase e per non ricadere nelle grinfie della giustizia, si dette alla macchia.
Caruso si insediò nei monti rivestiti di folte boscaglie che offrivano ai masnadieri latitanza. La sua casa divenne il bosco arruffato e impenetrabile tutto forre, buche e dirupi. Nella desolata solitudine della macchia circondata dai melanconici e deserti possedimenti, ove non si odeva che la voce delle creature del bosco, il brigante sorrideva della platonica giustizia. Tra il 1861 e il 1863 compì razzie di bestiame, incendi di masserie e l' assassinio di tantissima gente.
Venne catturato a Molinara in un fienile in cui era con l’amante. Da Molinara, per ordine del Prefetto, venne tradotto a Benevento, e sottoposto al tribunale militare. Il generale Pallavicini emise contro di lui sentenza di fucilazione. Caruso, con le mani legate dietro la schiena, fu condotto fuori porta Calore, dove lo aspettava una folla enorme accorsa da tutti i paesi del Beneventano. Caruso, camminava con passo lesto e con aspetto cupo e minaccioso. Giunto a pochi passi dal drappello, che lo doveva passare per le armi, alzò la testa e fissò i fucili, sfidando così la morte; poi gettò uno sguardo di disprezzo alla folla che, a squarciagola, gridava: ‘A morte! A morte!….’ Il masnadiere voleva contro di essa imprecare, ma non ebbe il tempo, poiché il comando fu dato, l'ufficiale del drappello sguainò ed alzò la sciabola... poi nell'abbassarla la scarica rintronò terribile. Michele Caruso, colpito da più proiettili, mandò un grido, poi barcollò ed infine cadde.
Eccovi alcuni avvenimenti…
27 febbraio 1863 - Verso la mezzanotte, innanzi alla masseria di don Luca Colatruglio si fermarono dei briganti a cavallo. Caruso che comandava la comitiva, picchiò ripetutamente alla porta. Il guardiano Francesco Fiorilli svegliatosi di soprassalto, incominciò ad inveire contro il seccatore. “Apri, altrimenti do fuoco alla masseria” disse Caruso. Il guardiano che dalla voce aveva conosciuto il masnadiere, corse ad aprire e porse le scuse. Il brigante aggiunse “Porta questo biglietto al tuo padrone.”, poi scuoiarono due montoni e li cucinarono. Il biglietto inviato al Colatruglio diceva:‘Caro don Lucio, mandati subito di pane vino salecicio per 300 persone 20 tomole di Biada e un piatto di poparuoli alla cete e 10 paccotti di sigheri e 10 bottiglie di Rosolio e 10 foglietti di carta Colorata altrimenti vi brugia tutto. Miche Caruso.’
1 giugno 1863 - Nicolangelo De Falco e Pellegrino Gozzi di S. Bartolomeo in Galdo, trovandosi presso S. Marco dei Cavoti, furono assaliti dai briganti. I masnadieri, dopo un ordine tassativo di Caruso, scesero da cavallo, e dopo aver scaricato i muli del De Falco e del Gozzi si appropriarono di un involto contenente del tabacco e di una scatola, che racchiudeva oggetti d’oro. Il De Falco e il Gozzi presero trenta legnate.
26 giugno 1863 - Furono assassinati presso S. Bartolomeo in Galdo, Leonardo Catullo e Giovanni Maddaloni di Bonea, un povero passante che faceva ritorno dalla Puglia dove era stato ad acquistare grano.
4 luglio 1863 - Il prefetto di Benevento Decoroso Sigismondi scrive: “Tra le bande di briganti che sogliono infestare questa provincia la più molesta è quella che sotto gli ordini di un tal Secola, composta di undici masnadieri a cavallo, tormenta ferocemente a preferenza il circondano di S. Bartolomeo in Galdo. Incessantemente perseguitata ed incalzata, si è finora sottratta agli attacchi della forza pubblica in ciò aiutata dalla singolare rapidità e dalla incredibile audacia dei suoi movimenti”. Il prefetto di Benevento per stimolare lo zelo della forza pubblica, previo accordo col Governo, promise a chi avesse catturato il Caruso 20.000 lire.
11 luglio 1863 –Pasquale Sivestri da San Felice a Cancello aspira ad assumere una funzione di spicco tra i masnadieri. E' lui che sulla strada che da San Bartolomeo porta a Benevento, assassina il 15 luglio due operai del telegrafo impegnati nella riparazione dei fili e alla fine del mese sequestra Silvestro Troise derubandolo della valigia postale.
9 settembre 1863 - La banda Caruso aveva sterminato il 7 settembre, in contrada Cancinuto di Castelvetere Val Fortore, diciotto persone. A San Bartolomeo si viene a sapere dello sterminio, si suonano a stormo le campane, si raccolgono volenterosi in appoggio alle Guardie Nazionali, Carabinieri Reali e Guardie di Pubblica Sicurezza. La comunità teme l'invasione, Caruso svia e sequestra don Giuseppe Iafaioli, don Angelo Maria Gisoldi, Domenico Del Prete e Domenico De Mora, che vengono poi assassinati, anche i primi due, nonostante le famiglie Iafaioli e Gisoldi sborsarono un riscatto di 1400 ducati.
10 settembre 1863 - Carneficina ancora maggiore ebbe a verificarsi a S. Bartolomeo in Galdo, sempre ad opera del Caruso. Furono assassinate circa 40 persone . Anche a questa carneficina era presente il Secola. Nel mese di settembre, dopo l'approvazione della legge Pica che colpiva i manutengoli e i favoreggiatori, Michele Caruso, vedendo forse che i contadini esitavano sempre di più nel sostenerlo, esplose in veri atti di estrema ferocia. Ebbro di sangue, nel suo odio contro le guardie nazionali prese a colpire ciecamente e spietatamente tutti quelli che fossero sospettati di tradimento. Da solo o in unione con altri capibanda, che in genere accettavano di collaborare in sottordine con lui, egli commise dei veri stermini.
29 ottobre 1863 - La banda Caruso, mentre stava riposando nella messeria di Ianni Domenico in tenimento di San Bartolomeo in Galdo fu messa in fuga dalla Guardia Nazionale.
12 dicembre 1863 - A Benevento viene giustiziato il brigante Michele Caruso è la fine del terrore.

domenica 27 febbraio 2011

Antichi mestieri

‘i ciucciar’Il ciuco ha caratterizzato nei secoli la tradizione contadina di San Bartolomeo in Galdo. I ‘ciucciar’ erano commercianti di ciuchi. Le contrattazioni ad oggetto i somari erano ancora ricorrenti negli anni ’70.
Commercianti di asini in paese ve ne erano non pochi, alcuni venivano addirittura da altri paesi. Anche i zingari venivano in paese per vendere ciuchi, muli e giumente. Si assisteva così a delle animate contrattazioni che potevano sfociare anche in baruffe.
L’asino e i suoi simili, rappresentavano per la comunità, un valido ausilio nelle più disparate attività. Di frequente capitava di assistere in qualche vicoletto alla tosatura di un asinello, così come alla ferratura, con la quale il maniscalco sistemava allo zoccolo dell’animale un ferro che poi fissava con dei chiodi.
Nelle ‘ruelle’ ossia nelle viottole strettissime che portavano a vigneti e uliveti, si vedevano vecchiette che aggrappate alla coda del ciuco si lasciavano tirare nei tratti più in salita. Durante la vendemmia si ponevano sulla groppa del ciuco delle tinozze piene d’uva e si ci inerpicava per queste viottole e similmente avveniva nella stagione delle olive. In fin dei conti, sempre carico di qualcosa, il ciuco raffigurava un segno di agiatezza per chi lo teneva. Ed è da evidenziare l’importanza vitale rappresentata dal latte di asina per alcuni bambini in quei miseri tempi.
‘i vaccar e i crapar’ ‘Vaccar e crapar’ erano altre figure tipiche dell'economia antica di questo piccolo paesino posizionato sulle verdi colline sannite. A quei tempi, la stagione che portava con se, prima di ogni altra cosa, una certa trepidazione, era l'inverno, per difendersi dal freddo si teneva in casa il braciere, si manteneva dentro di esso il fuoco sempre vivo, intorno vi si riuniva tutta la famiglia nelle interminabili serate, ed ognuno si dedicava a qualcosa: chi al ricamo, chi a filare la lana, chi ad intagliare il legno e chi ad intrecciare salici per costruire cesti... tutto alla flebile luce del lume ad olio.
A primavera vi era l'esplosione della natura, la campagna diveniva un susseguirsi di colori, prevaleva dappertutto il verde, ma qua e là comparivano screziature di diversi colori e odori, e con la bella stagione iniziava l’attività di ‘vaccar e caprar’ ossia coloro che portavano al pascolo mucche e capre.
Il pastore di capre, di buon mattino passando per le case del paese, prendeva in consegna le capre e li portava al pascolo, poi al calare del sole faceva ritorno in paese . Solitamente aveva un compenso annuo in natura: olio, vino, granturco o grano. Tenere una capra significava avere una scodella di latte fresco ogni mattina da dare ai piccini. La Valfortorina era la varietà di capre più diffusa, aveva un lungo vello bicolore.
Il pascolatore di mucche era una figura legata alle fattorie, dove vi era una specializzazione delle diverse mansioni, passava l'intera giornata al pascolo dietro alle mucche, poi quando ritornava alla fattoria le mungeva, il latte si vendeva in paese, di casa in casa. La varietà più diffusa di mucche era l’Agerolese, rustica, piccola e rossiccia.
‘i purcar’Un’altra figura dell’economia spicciola del paese di mezzo secolo fa era appunto ‘u purcar’ ossia il guardiano dei maiali. A quel tempo i maiali che venivano allevati nei paesini della provincia di Benevento erano principalmente di razza Casertana, di colore nero e decisamente rustici, caratterizzati da pochissime setole per cui venivano anche definiti col termine ‘pelatella’ e avevano dei bargiglioni sotto il collo, fornivano a dicembre una buona produzione di lardo.
Ogni famiglia acquistava alla fiera del bestiame uno o più maialini, a cui venivano preparati un giaciglio di foglie e paglia in un piccolo bugigattolo ‘a roll’. Di buon mattino il porcaro girando per le viottole del paese metteva insieme un po’ di maiali e li portava nei boschi dove potevano rinfilzarsi di ghiande, erbe di diverse varietà, tuberi e funghi.
Quindi dalla mattina alla sera il porcaro avvalendosi dei cani, aveva la possibilità di portare nella macchia i maiali, si stabiliva tra cane e porcaro un certo affiatamento ed un reciproco intendimento.
Al tramonto li riconduceva in paese alle proprie case, dove l’alimentazione veniva integrata con gli avanzi. Nel mese di dicembre il maiale diveniva prelibatezza per la mensa. Il sanguinaccio dolce era una leccornia che teneva buoni i bambini.
‘ i pcurar’Un’altra figura caratteristica era ‘u pcurar’ ossia il pastore di pecore.
Le vie d'erba che animarono nel corso dei secoli la civiltà della transumanza, richiamano alla mente un fenomeno vecchio di secoli.
Nell'Italia meridionale alle prime nevi di settembre, quando la montagna diveniva inospitale con i primi freddi autunnali, i pastori lasciavano l'Appennino centro-meridionale e si dirigevano verso il Tavoliere, dove rimanevano fino a maggio, quando la bella stagione permetteva loro di ritornare verso i vasti altopiani della montagna allorché era la pianura a farsi inospitale. Così, ogni anno, per secoli.
Ricchi di piante e di acqua, le vie d’erba rappresentavano vie di comunicazione e pascoli per gli animali da fattoria, erano dotati di servizi per pastori e bestiame. Lungo le vie verdi contornate da ricche siepi, spuntarono chiese, osterie, bettole e fiorenti centri.
Vi erano anche pastori che pascolavano le pecore esclusivamente nei dintorni del paese. Alle prime incerte luci dell'alba, il pastore doveva mungere le pecore. Poi, dopo una colazione con pane, formaggio e lardo, iniziava la lunga giornata dietro al gregge, con il tovagliolo del pane alla cintura annodato alle quattro estremità, e in mano un bastone di orniello, così dalla mattina all’imbrunire, in compagnia dei suoi cani, godendo dell’aria pulita, dei profumi dei fiori silvestri e delle dolci melodie degli usignoli.
La sera poi, ritornava alla masseria e doveva mungere, bollire il latte, preparare il formaggio e la ricotta. Poi veniva il sonno alla bell'e meglio, e la mattina dopo di nuovo tutto dall’inizio.
La Laticauda era la pecora allevata principalmente nel Beneventano, dava una discreta produzione di latte e di lana e una buona produzione di agnelli.

Antichi mulini

I mulini ad acqua facevano da cornice ai corsi d’acqua, che limpidi e traboccanti fluivano sui ciottoli colorati. Le enormi ruote con le pale in legno e la macina di pietra, costituivano il cuore palpitante del mulino. Costruzioni in pietra e in legno, disseminate lungo i corsi d’acqua, i mulini erano centri essenziali dell’economia antica.
La gente si rivolgeva ai ‘carrttir’ o caricava gli asinelli con i sacchi di grano e granturco e per le viottole strettissime giungeva sino ai mulini, dove veniva accolta con bontà d’altri tempi dal mugnaio. Macinate le granaglie si faceva ritorno a casa con la farina che veniva impiegata per confezionare il pane, la pasta e i biscotti.
Tra fiotti d’acqua e cigolii di ruote appariva la figura del mugnaio, imbiancato di farina dalla testa ai piedi, abilissimo nel suo mestiere e ben istruito.
I ‘carrttir’ ossia i carrettieri erano figure dell’economia antica del paese, con le maniche rimboccate spingevano il carretto, sul quale trasportavano alle cantine quei barilotti di vino allungati come un sigaro mozzo alle estremità, o portavano sacchi di farina alle botteghe e sacchi di grano al mulino. Oltre ad essere carrettiere ‘Musriello’ aveva un calesse per il trasporto delle persone, d’una semplicità antica con due lunghe e forti stanghe che posavano da una parte su due ruote alte, e dall’altra, in linea orizzontale, sul dorso d’una giumenta morella, con un’incollatura, una testa, un tutt’insieme che ricordava i cavalli dell’arte antica.