sabato 5 marzo 2011

Storie di briganti

I Briganti hanno da sempre affascinato poeti e prosatori che dando esalazione alla fantasia hanno creato personaggi leggendari, solitamente non privi di una carica di simpatia. Miseria, condizioni pessime di vita e arretratezza diedero vita a creature raccapriccianti della criminalità. Privi di ideali politici e senza alcuna prospettiva di un ordine sociale, scorazzavano per le campagne, tendendo agguati e rendendo insicure le poche viottole di fango che allacciavano i paeselli arroccati sulle boscose colline sannite. Contribuirono ad alimentare il brigantaggio le tasse eccessivamente gravose, la burocrazia e la perdita di usi civici, quali il legnatico e l’erbatico.
Le bande erano piccole comitive a cavallo, sulla cui groppa tenevano una bisaccia a doppia tasca, in cui vi erano viveri, munizioni e doppietta da caccia. Le bande comunicavano con colonne di fumo durante il giorno e con falò nella notte. I messaggi venivano trasmessi con speciali accorgimenti come stracci esposti alle finestre, intacchi sulle piante, rami spezzati, pietre accatastate, imitazioni di richiami di uccelli. La gente più povera non era ostile, anzi proteggeva i briganti, che erano visti come vendicatori di ingiustizie secolari. Per reprimere il brigantaggio fu approvata la legge Pica e furono inviati nel meridione i soldati e si commisero abusi come la fucilazione dì chi era trovato in possesso di armi, l’arresto dei sospettati ed altre misure punitive. I briganti risposero con non meno ferocia.
I briganti più celebri che caratterizzarono la scena di San Bartolomeo in Galdo nel primo decennio del 1800 furono i fratelli Vardarelli di Celenza così designati perché artigiani di finimenti ‘varde’ per giumente e muli. I Vardarelli misero insieme una banda di 200 masnadieri che incuteva trepidazione. Agli inizi del 1860 a San Bartolomeo vi erano due bande di briganti che compivano malefatte in paese, capeggiate dal ‘ Sargentiello’ e dal ‘Monachiello’.
Altri briganti che si presentavano con continue incursioni nel paese e nelle campagne di San Bartolomeo erano le bande del baselicese Antonio Secola, di Saverio Basile da Colle Sannita, di Giuseppe Schiavone di S. Antagata di Puglia e di Giambattista Varanelli di Celenza, tutti capi masnadieri che riconoscevano l’autorità di Michele Caruso di Torremaggiore.
Le prime voci sui banditi cominciarono a diffondersi nel maggio del 1861. Si cercò quindi di difendere i paesi che si ergevano desolati su queste colline con delle guardie nazionali.
Covo dei briganti prese ad essere il bosco di Mazzocca che si estendeva tra Baselice, Castelvetere, Colle e S. Marco dei Cavoti, da qui i briganti potevano con facilità piombare ora sull'uno, ora sull'altro paese.
Michele Caruso il famosissimo brigante che terrorizzò San Bartolomeo e i paesi contigui nacque a Torremaggiore nel 1837. L'abitazione in cui nacque e visse da bambino era una vecchia catapecchia dalle mura nere e umide, fra il sudiciume e i cattivi odori, illuminata dalla fiamma fuligginosa di una candela ad olio, dove non possiamo minimamente immaginare come quella gente vi potesse vivere, amare e soffrire.
Michele fin dall’infanzia si dimostrò capriccioso, poco rispettoso e brutale. Divenuto giovane si diede a fare il boscaiolo, il sensale di grano, il garzone del fornaio e il vaccaro. Quando Era cresciuto in una rozza famiglia di boscaioli, la mancata educazione aveva fatto in lui comparire l'atavismo. A differenza di tanti altri capi briganti, eseguiva le più importanti condanne per il solo desiderio di vedere soffrire. Ben presto fu rinchiuso nelle carceri di S. Severo, ma evase e per non ricadere nelle grinfie della giustizia, si dette alla macchia.
Caruso si insediò nei monti rivestiti di folte boscaglie che offrivano ai masnadieri latitanza. La sua casa divenne il bosco arruffato e impenetrabile tutto forre, buche e dirupi. Nella desolata solitudine della macchia circondata dai melanconici e deserti possedimenti, ove non si odeva che la voce delle creature del bosco, il brigante sorrideva della platonica giustizia. Tra il 1861 e il 1863 compì razzie di bestiame, incendi di masserie e l' assassinio di tantissima gente.
Venne catturato a Molinara in un fienile in cui era con l’amante. Da Molinara, per ordine del Prefetto, venne tradotto a Benevento, e sottoposto al tribunale militare. Il generale Pallavicini emise contro di lui sentenza di fucilazione. Caruso, con le mani legate dietro la schiena, fu condotto fuori porta Calore, dove lo aspettava una folla enorme accorsa da tutti i paesi del Beneventano. Caruso, camminava con passo lesto e con aspetto cupo e minaccioso. Giunto a pochi passi dal drappello, che lo doveva passare per le armi, alzò la testa e fissò i fucili, sfidando così la morte; poi gettò uno sguardo di disprezzo alla folla che, a squarciagola, gridava: ‘A morte! A morte!….’ Il masnadiere voleva contro di essa imprecare, ma non ebbe il tempo, poiché il comando fu dato, l'ufficiale del drappello sguainò ed alzò la sciabola... poi nell'abbassarla la scarica rintronò terribile. Michele Caruso, colpito da più proiettili, mandò un grido, poi barcollò ed infine cadde.
Eccovi alcuni avvenimenti…
27 febbraio 1863 - Verso la mezzanotte, innanzi alla masseria di don Luca Colatruglio si fermarono dei briganti a cavallo. Caruso che comandava la comitiva, picchiò ripetutamente alla porta. Il guardiano Francesco Fiorilli svegliatosi di soprassalto, incominciò ad inveire contro il seccatore. “Apri, altrimenti do fuoco alla masseria” disse Caruso. Il guardiano che dalla voce aveva conosciuto il masnadiere, corse ad aprire e porse le scuse. Il brigante aggiunse “Porta questo biglietto al tuo padrone.”, poi scuoiarono due montoni e li cucinarono. Il biglietto inviato al Colatruglio diceva:‘Caro don Lucio, mandati subito di pane vino salecicio per 300 persone 20 tomole di Biada e un piatto di poparuoli alla cete e 10 paccotti di sigheri e 10 bottiglie di Rosolio e 10 foglietti di carta Colorata altrimenti vi brugia tutto. Miche Caruso.’
1 giugno 1863 - Nicolangelo De Falco e Pellegrino Gozzi di S. Bartolomeo in Galdo, trovandosi presso S. Marco dei Cavoti, furono assaliti dai briganti. I masnadieri, dopo un ordine tassativo di Caruso, scesero da cavallo, e dopo aver scaricato i muli del De Falco e del Gozzi si appropriarono di un involto contenente del tabacco e di una scatola, che racchiudeva oggetti d’oro. Il De Falco e il Gozzi presero trenta legnate.
26 giugno 1863 - Furono assassinati presso S. Bartolomeo in Galdo, Leonardo Catullo e Giovanni Maddaloni di Bonea, un povero passante che faceva ritorno dalla Puglia dove era stato ad acquistare grano.
4 luglio 1863 - Il prefetto di Benevento Decoroso Sigismondi scrive: “Tra le bande di briganti che sogliono infestare questa provincia la più molesta è quella che sotto gli ordini di un tal Secola, composta di undici masnadieri a cavallo, tormenta ferocemente a preferenza il circondano di S. Bartolomeo in Galdo. Incessantemente perseguitata ed incalzata, si è finora sottratta agli attacchi della forza pubblica in ciò aiutata dalla singolare rapidità e dalla incredibile audacia dei suoi movimenti”. Il prefetto di Benevento per stimolare lo zelo della forza pubblica, previo accordo col Governo, promise a chi avesse catturato il Caruso 20.000 lire.
11 luglio 1863 –Pasquale Sivestri da San Felice a Cancello aspira ad assumere una funzione di spicco tra i masnadieri. E' lui che sulla strada che da San Bartolomeo porta a Benevento, assassina il 15 luglio due operai del telegrafo impegnati nella riparazione dei fili e alla fine del mese sequestra Silvestro Troise derubandolo della valigia postale.
9 settembre 1863 - La banda Caruso aveva sterminato il 7 settembre, in contrada Cancinuto di Castelvetere Val Fortore, diciotto persone. A San Bartolomeo si viene a sapere dello sterminio, si suonano a stormo le campane, si raccolgono volenterosi in appoggio alle Guardie Nazionali, Carabinieri Reali e Guardie di Pubblica Sicurezza. La comunità teme l'invasione, Caruso svia e sequestra don Giuseppe Iafaioli, don Angelo Maria Gisoldi, Domenico Del Prete e Domenico De Mora, che vengono poi assassinati, anche i primi due, nonostante le famiglie Iafaioli e Gisoldi sborsarono un riscatto di 1400 ducati.
10 settembre 1863 - Carneficina ancora maggiore ebbe a verificarsi a S. Bartolomeo in Galdo, sempre ad opera del Caruso. Furono assassinate circa 40 persone . Anche a questa carneficina era presente il Secola. Nel mese di settembre, dopo l'approvazione della legge Pica che colpiva i manutengoli e i favoreggiatori, Michele Caruso, vedendo forse che i contadini esitavano sempre di più nel sostenerlo, esplose in veri atti di estrema ferocia. Ebbro di sangue, nel suo odio contro le guardie nazionali prese a colpire ciecamente e spietatamente tutti quelli che fossero sospettati di tradimento. Da solo o in unione con altri capibanda, che in genere accettavano di collaborare in sottordine con lui, egli commise dei veri stermini.
29 ottobre 1863 - La banda Caruso, mentre stava riposando nella messeria di Ianni Domenico in tenimento di San Bartolomeo in Galdo fu messa in fuga dalla Guardia Nazionale.
12 dicembre 1863 - A Benevento viene giustiziato il brigante Michele Caruso è la fine del terrore.

domenica 27 febbraio 2011

Antichi mestieri

‘i ciucciar’Il ciuco ha caratterizzato nei secoli la tradizione contadina di San Bartolomeo in Galdo. I ‘ciucciar’ erano commercianti di ciuchi. Le contrattazioni ad oggetto i somari erano ancora ricorrenti negli anni ’70.
Commercianti di asini in paese ve ne erano non pochi, alcuni venivano addirittura da altri paesi. Anche i zingari venivano in paese per vendere ciuchi, muli e giumente. Si assisteva così a delle animate contrattazioni che potevano sfociare anche in baruffe.
L’asino e i suoi simili, rappresentavano per la comunità, un valido ausilio nelle più disparate attività. Di frequente capitava di assistere in qualche vicoletto alla tosatura di un asinello, così come alla ferratura, con la quale il maniscalco sistemava allo zoccolo dell’animale un ferro che poi fissava con dei chiodi.
Nelle ‘ruelle’ ossia nelle viottole strettissime che portavano a vigneti e uliveti, si vedevano vecchiette che aggrappate alla coda del ciuco si lasciavano tirare nei tratti più in salita. Durante la vendemmia si ponevano sulla groppa del ciuco delle tinozze piene d’uva e si ci inerpicava per queste viottole e similmente avveniva nella stagione delle olive. In fin dei conti, sempre carico di qualcosa, il ciuco raffigurava un segno di agiatezza per chi lo teneva. Ed è da evidenziare l’importanza vitale rappresentata dal latte di asina per alcuni bambini in quei miseri tempi.
‘i vaccar e i crapar’ ‘Vaccar e crapar’ erano altre figure tipiche dell'economia antica di questo piccolo paesino posizionato sulle verdi colline sannite. A quei tempi, la stagione che portava con se, prima di ogni altra cosa, una certa trepidazione, era l'inverno, per difendersi dal freddo si teneva in casa il braciere, si manteneva dentro di esso il fuoco sempre vivo, intorno vi si riuniva tutta la famiglia nelle interminabili serate, ed ognuno si dedicava a qualcosa: chi al ricamo, chi a filare la lana, chi ad intagliare il legno e chi ad intrecciare salici per costruire cesti... tutto alla flebile luce del lume ad olio.
A primavera vi era l'esplosione della natura, la campagna diveniva un susseguirsi di colori, prevaleva dappertutto il verde, ma qua e là comparivano screziature di diversi colori e odori, e con la bella stagione iniziava l’attività di ‘vaccar e caprar’ ossia coloro che portavano al pascolo mucche e capre.
Il pastore di capre, di buon mattino passando per le case del paese, prendeva in consegna le capre e li portava al pascolo, poi al calare del sole faceva ritorno in paese . Solitamente aveva un compenso annuo in natura: olio, vino, granturco o grano. Tenere una capra significava avere una scodella di latte fresco ogni mattina da dare ai piccini. La Valfortorina era la varietà di capre più diffusa, aveva un lungo vello bicolore.
Il pascolatore di mucche era una figura legata alle fattorie, dove vi era una specializzazione delle diverse mansioni, passava l'intera giornata al pascolo dietro alle mucche, poi quando ritornava alla fattoria le mungeva, il latte si vendeva in paese, di casa in casa. La varietà più diffusa di mucche era l’Agerolese, rustica, piccola e rossiccia.
‘i purcar’Un’altra figura dell’economia spicciola del paese di mezzo secolo fa era appunto ‘u purcar’ ossia il guardiano dei maiali. A quel tempo i maiali che venivano allevati nei paesini della provincia di Benevento erano principalmente di razza Casertana, di colore nero e decisamente rustici, caratterizzati da pochissime setole per cui venivano anche definiti col termine ‘pelatella’ e avevano dei bargiglioni sotto il collo, fornivano a dicembre una buona produzione di lardo.
Ogni famiglia acquistava alla fiera del bestiame uno o più maialini, a cui venivano preparati un giaciglio di foglie e paglia in un piccolo bugigattolo ‘a roll’. Di buon mattino il porcaro girando per le viottole del paese metteva insieme un po’ di maiali e li portava nei boschi dove potevano rinfilzarsi di ghiande, erbe di diverse varietà, tuberi e funghi.
Quindi dalla mattina alla sera il porcaro avvalendosi dei cani, aveva la possibilità di portare nella macchia i maiali, si stabiliva tra cane e porcaro un certo affiatamento ed un reciproco intendimento.
Al tramonto li riconduceva in paese alle proprie case, dove l’alimentazione veniva integrata con gli avanzi. Nel mese di dicembre il maiale diveniva prelibatezza per la mensa. Il sanguinaccio dolce era una leccornia che teneva buoni i bambini.
‘ i pcurar’Un’altra figura caratteristica era ‘u pcurar’ ossia il pastore di pecore.
Le vie d'erba che animarono nel corso dei secoli la civiltà della transumanza, richiamano alla mente un fenomeno vecchio di secoli.
Nell'Italia meridionale alle prime nevi di settembre, quando la montagna diveniva inospitale con i primi freddi autunnali, i pastori lasciavano l'Appennino centro-meridionale e si dirigevano verso il Tavoliere, dove rimanevano fino a maggio, quando la bella stagione permetteva loro di ritornare verso i vasti altopiani della montagna allorché era la pianura a farsi inospitale. Così, ogni anno, per secoli.
Ricchi di piante e di acqua, le vie d’erba rappresentavano vie di comunicazione e pascoli per gli animali da fattoria, erano dotati di servizi per pastori e bestiame. Lungo le vie verdi contornate da ricche siepi, spuntarono chiese, osterie, bettole e fiorenti centri.
Vi erano anche pastori che pascolavano le pecore esclusivamente nei dintorni del paese. Alle prime incerte luci dell'alba, il pastore doveva mungere le pecore. Poi, dopo una colazione con pane, formaggio e lardo, iniziava la lunga giornata dietro al gregge, con il tovagliolo del pane alla cintura annodato alle quattro estremità, e in mano un bastone di orniello, così dalla mattina all’imbrunire, in compagnia dei suoi cani, godendo dell’aria pulita, dei profumi dei fiori silvestri e delle dolci melodie degli usignoli.
La sera poi, ritornava alla masseria e doveva mungere, bollire il latte, preparare il formaggio e la ricotta. Poi veniva il sonno alla bell'e meglio, e la mattina dopo di nuovo tutto dall’inizio.
La Laticauda era la pecora allevata principalmente nel Beneventano, dava una discreta produzione di latte e di lana e una buona produzione di agnelli.

Antichi mulini

I mulini ad acqua facevano da cornice ai corsi d’acqua, che limpidi e traboccanti fluivano sui ciottoli colorati. Le enormi ruote con le pale in legno e la macina di pietra, costituivano il cuore palpitante del mulino. Costruzioni in pietra e in legno, disseminate lungo i corsi d’acqua, i mulini erano centri essenziali dell’economia antica.
La gente si rivolgeva ai ‘carrttir’ o caricava gli asinelli con i sacchi di grano e granturco e per le viottole strettissime giungeva sino ai mulini, dove veniva accolta con bontà d’altri tempi dal mugnaio. Macinate le granaglie si faceva ritorno a casa con la farina che veniva impiegata per confezionare il pane, la pasta e i biscotti.
Tra fiotti d’acqua e cigolii di ruote appariva la figura del mugnaio, imbiancato di farina dalla testa ai piedi, abilissimo nel suo mestiere e ben istruito.
I ‘carrttir’ ossia i carrettieri erano figure dell’economia antica del paese, con le maniche rimboccate spingevano il carretto, sul quale trasportavano alle cantine quei barilotti di vino allungati come un sigaro mozzo alle estremità, o portavano sacchi di farina alle botteghe e sacchi di grano al mulino. Oltre ad essere carrettiere ‘Musriello’ aveva un calesse per il trasporto delle persone, d’una semplicità antica con due lunghe e forti stanghe che posavano da una parte su due ruote alte, e dall’altra, in linea orizzontale, sul dorso d’una giumenta morella, con un’incollatura, una testa, un tutt’insieme che ricordava i cavalli dell’arte antica.

giovedì 28 ottobre 2010

Storia di streghe sannite

Il Beneventano è da secoli visto in correlazione alla leggenda delle streghe, danzanti nelle notti di luna piena intorno ad un noce maestoso che germogliava sia d’estate che d’inverno. “Unguento unguento, mandame a la noce de Benevento, supra acqua et supra vento, et supra ad omne maltempo!” Canti e figure di streghe caratterizzano ancora oggi i sogni di queste terre antichissime, visitare i paeselli dai vicoletti stretti e tortuosi con vecchie casette diroccate è sperimentare l’incantesimo di posti senza tempo, dove il passato è ancora presente. Il Beneventano è una terra mistica, da esplorare in silenzio, per lasciarsi catturare dall’eco di voci millenarie e dall’atmosfera di alchimie, che consentono al visitatore curioso e attento di vivere la sua segreta magia.
Nei paesini vivevano le streghe ‘janare’, a cui la superstizione attribuiva la capacità di guarire dal malocchio, dai disturbi di mente e dai malanni fisici, ma anche la capacità di mandare in malora i raccolti, di fare malefici e di preparare filtri d’amore. A quei tempi c’erano anche i licantropi, che nelle notti di plenilunio si svestivano, si rotolavano nel fango dei vicoletti e ululavano alle stelle.
Antica credenza era che le streghe si riunissero nelle notti di plenilunio intorno ad un noce secolare, per banchetti e ammucchiate erotiche, che volassero con scope e caproni in virtù di speciali unguenti, che alla luce del sole si trasfigurassero in serpi per attendere così le tenebre.
Convinzione radicata da secoli era che le streghe entrassero di notte nelle case, maleficando con la loro magia i componenti della famiglia. Per impedire quindi che entrassero, bisognava mettere dietro l’uscio di casa la scopa perché le streghe erano costrette a contarne i fili di saggina e sbagliando avrebbero ricominciato ogni volta daccapo, così la notte sarebbe passata, o un ferro d’asino cosicché era ugualmente impossibile che le streghe conoscessero quanti passi avesse dato l’animale con quel ferro e tra le incertezze sarebbe arrivato il primo chiarore del mattino, altri espedienti erano una falce spezzata o della crusca.
Se si riusciva a percuotere una strega si poteva stare al sicuro dai malefici per diverse generazioni, così avveniva che anche donne erroneamente considerate tali venivano picchiate.
A Baselice vi era una strega celeberrima, che incantava le messi rendendole sterili e rendeva storpi i bambini con i suoi malefici. Considerata un male da estirpare, venne picchiata e giustiziata in una grotta, venne fatta a pezzi buttati poi in tre pozzi diversi.
Sempre a Baselice vi era la scuola della stregoneria, probabilmente nelle tenebre di una delle grotte naturali, la frequentavano le donne che volevano iniziarsi a quest’arte. Alla magia delle streghe venivano attribuiti diversi malefici, per guarire dai quali si ci rivolgeva ad esse che con certi intrugli ne promettevano la guarigione, se questa vi era, di conseguenza vi era amore per le streghe, altrimenti odio per sempre.
La scuola di stregoneria aveva una figura carismatica, ‘Mariucc a rosc’, una donna coi capelli rossi, canuti e arruffati tenuti raccolti con una forcina d’argento, sulle spalle uno scialle colorato i cui estremi erano uniti al petto da uno spillone metallico dalle sembianze di serpente. Prediva l’avvenire e dialogava coi diavoli che considerava intimi confidenti. Si sedeva sempre su una sedia di paglia dinnanzi alla sua catapecchia e lavorava la lana con i ferri per intere giornate, viveva con i proventi che venivano da gente impaurita dalle sue fatue minacce di stregoneria. A volte si estasiava sulle rive del Fortore, si svestiva, gesticolava stranamente come a fare scongiuri e diavolerie, si immergeva nelle acque torbide del fiume, poi si rivestiva e attraversava gli incolti per raccogliere erbe misteriose. Negli ultimi momenti della sua vita volle al capezzale del letto una figura diabolica, mentre chiudeva per l’ultima volta gli occhi asserì di vedere intorno a sé tante fiamme.
Di credenze nei riguardi delle streghe sono animati anche gli altri paeselli del Beneventano.Ciò che caratterizzava la storia delle streghe nel Beneventano era la semplicità e la frugalità estrema che contraddistingueva la quotidianità dei paeselli, che si presentavano come posti fatiscenti e pieni di tranquillità. Cadenti e sgretolate catapecchie con viottoli infangati dominavano la scena, la povertà era ovunque, vi erano tradizioni e costumi radicati da secoli.

martedì 26 ottobre 2010

Suora Edvige e l'elisir di lunga vita

Suora Edvige è presente sempre nei miei pensieri più belli, la ricordo che con commovente bontà, mi teneva la mano nelle sue minute e delicatissime, i suoi occhi sorridenti e sempre vivaci, l’aria giovanile nonostante avesse più di cent’anni, mi viene così da pensare che la vecchiaia quando è vissuta con tanto ottimismo e tanto amore non è una cosa che fa spavento.
Disquisivo con lei per ore, era un’autentica sorgente di rimedi e consigli che distribuiva con generosità e semplicità. Suora Edvige era religiosa delle Suore della Carità di Santa Giovanna Antida da Touret, era stata maestra di ricamo e cucito, educatrice dei bambini, aveva sempre rincuorato i bisognosi, aveva con passione annunciato la buona novella, aveva portato l’amore ovunque, quell’amore che, come diceva lei “cambia ogni cosa”. “La religiosità mi ha indicato la via della felicità” così diceva con una dolcezza infinita, e chi vedeva il sorriso che le illuminava il volto non poteva certo dubitarne.
Anche se aveva più di cent’anni suora Edvige non viveva il crepuscolo della sua esistenza nel riposo e nella contemplazione, contrariamente si svegliava all’aurora e iniziava con le lodi al Signore, poi metteva ordine in convento e scendeva una lunga scalinata che la portava in Chiesa, dove partecipava attivamente alla Santa Messa e ogni mattina riceveva l’ Eucarestia. Per suora Edvige era importante il trovarsi a mensa, davanti a un buon piatto di minestra fumante, diceva lei “è buffo e commovente insieme, i taciturni diventano espansivi e tutti sorridono un pò, ecco perché Il Signore le cose più belle le ha fatte a mensa”.
Era golosissima di dolci. A dormire non andava mai tardi, diceva lei “la mente e il corpo hanno bisogno del giusto riposo”.
Quando il sole spumeggiava nel cielo che si tingeva di un tenue azzurro, suora Edvige amava fare delle passeggiate nel bosco insieme a suor Paolina, per deliziarsi degli odori e dei colori dei fiori.
Ricordo che le chiesi qual’era la relazione che ciascuno di noi dovesse avere con il Signore, lei mi rispose con un sorriso che le partiva dal profondo del cuore, quel sorriso che aveva ridato letizia a molti “se ti capita all’improvviso di sentirti spento, stanco, stressato... Che fai? Piangi? Rompi tutto? Te la prendi con qualcuno? Perdi la testa? Ma io ti dico che star male non significa niente. Perché anche se sei rifiutato, intimorito, detestato, sminuito... C’è qualcuno lassù che sa quello che vali e quanto sei grande, e quello che più importa è che... Ti ama infinitamente.”
L’elisir di lunga vita di Suor Edvige era mettere il cuore in ogni cosa che faceva, anche nelle più semplici, ed è nelle cose più semplici che lei trovava la serenità e l’amore!

lunedì 25 ottobre 2010

Le delizie dell'alveare

La prima volta che ho visto delle arnie è stato in campagna dal maestro Marruchella, che con certosina pazienza si dedicava alle api, mi fece così varcare la porta dell’incantevole mondo di queste laboriose creature e me ne innamorai immediatamente.
Simmetricamente erano disposti gli alveari, tra i ciliegi che si innalzavano slanciati al disopra del tetto di una casettina, le cime frondose facevano frusciare in modo appena percettibile il loro fresco fogliame verde scuro, accompagnate dal suono del ronzio delle api. Tutte le ombre dal tettuccio della casetta agli alveari ricadevano scure e corte sull’erba ricciuta che spuntava tra le arnie. La figura slanciata del maestro con la testa argentea che riluceva al sole si delineava accanto alla porta della casetta. Il maestro lavorava con pacatezza sfregando con un lembo della camicia il volto sudato riarso dal sole e sorridendo con fare mite e gioioso. Nell’apiario tutto era così confortevole, tranquillo e limpido, la figura del maestro con poche rughe a raggiera attorno agli occhi, con un piccolo neo sul mento, con ampie scarpe calzate ai piedi enormi e il sorriso bonario e soddisfatto completava la tela. Il sorriso non gli abbandonava mai il viso abbronzato e lui girava tra le api che gli si posavano ovunque ricoprendolo e mai pungendolo.
Mi diceva il maestro delle api, così lo chiamavo da bambino “Dove sono finiti quei fiori che col profumo ci inebriavano?Dove sono finite quell’essenze che conferivano al miele il sapore genuino e ricco? Dove sono finite le corolle che con i mille colori dipingevano queste dolci e verdi colline? Le api appaiono ubriache e stanche!”
L'alveare rappresenta una miniera inesauribile di sostanze: miele, polline, cera, propoli, pappa reale, che per le loro proprietà, permettono trattamenti efficienti su molteplici patologie.
Miele di acacia, di castagno, di tiglio, di eucalipto e millefiori: tante varietà quante sono le fioriture, sostanzialmente cambia il colore, si intensifica il profumo e varia il sapore, ma resta identica la caratteristica benefica. Il miele ha proprietà terapeutiche, ne basta un cucchiaino preso con regolarità affinché esplichi effetti antisettici, calmanti, lassativi, diuretici e accresca il benessere in generale. Anticamente il miele veniva impiegato dalle nostre nonne in mille modi, disciolto nel latte caldo o anche unito al succo del limone o all’infuso dei petali di rosa diveniva così una lozione benefica per il viso, o anche disciolto in acqua calda diveniva una lozione che dava luminosità ai capelli.
Il polline dei fiori è raccolto dalle api bottinatrici e depositato nelle cellette dei favi. Quotidianamente ne basta un cucchiaino per ristabilire la buona funzionalità intestinale, stimolare ed aumentare l'energia vitale. Svolge un'azione antianemica ed agisce da antidepressivo.
La pappa reale prodotta dalle api è il nutrimento esclusivo della regina, preso al cambio di stagione è uno stimolante delle attività funzionali, suscita una sensazione di tranquillità, combatte i disturbi intestinali e l'anemia, agisce contro le astenie, apporta un miglioramento dell'umore ed una sensazione di benessere.
La propoli è composta da sostanze resinose, gommose, balsamiche, raccolte dalle api e portate all'alveare. Le virtù terapeutiche della propoli sono tantissime, in particolare antisettiche e antibiotiche, dispiega gli effetti a beneficio dell'apparato respiratorio e dell'apparato digerente.La cera secrezione delle api viene impiegata in diversi modi, anche in cosmesi. Il veleno delle api è risultato un medicamento per alcune patologie quali artrosi, artrite reumatoide e sciatalgie.
Francesco il poverello di Assisi durante l’inverno si preoccupava di far preparare per le api, miele e vino cosicché queste potessero combattere il freddo. Lodava la laboriosità e la finezza d’istinto che il Signore aveva elargito alle api “ Laudato sii mi Signore per sorelle api, le quali sono laboriose e preziose, impollinano i fiori e ci allietano con le delizie dell’alveare”.

domenica 24 ottobre 2010

I rimedi della nonna

Tra le reminiscenze della mia infanzia ci sono le passeggiate con nonna Beatrice per le viottole che portavano alla casetta di campagna. Una fila di girasoli, simili a giganti dorati, si ergeva a ridosso della casetta in pietre, mandorli dalla corteccia increspata e argentei pioppi le facevano da cornice. Una casetta con la pavimentazione d’argilla ben lisciata, zeppa di bauli e bauletti, gomitoli di lana multicolore, barattoli di vetro con foglie e petali essiccati di diverse piantine, e tanti brandelli di vecchi abiti che si ammucchiavano nei cantucci. Il cigolio delle porte echeggiava nella casetta, le sedie erano in legno di noce, avevano alti schienali torniti senza lacche, ne tinture, di quelle per le quali solitamente si distingue la bell’epoca antica.
Mia nonna Beatrice era una vecchietta esile dal cuore semplice, sorrideva sempre sia che stesse raccontando qualcosa, sia che semplicemente stesse ascoltando. Sul viso e nei suoi piccoli occhi neri era dipinta una tale bontà e una tale disponibilità ad offrire tutto quanto aveva di meglio. Le rughe leggere erano disposte sul viso con una tale piacevolezza che un artista le avrebbe probabilmente rubate. In quelle rughe sembrava possibile leggere tutta la sua vita luminosa e tranquilla. La nonna mi diceva sempre: “dobbiamo vivere nella letizia, alimentarla in noi stessi ed espanderla intorno a noi”, vivere nella letizia non vuol dire non vedere le brutture, vivere nella letizia vuol dire vivere nella consapevolezza estrema testimoniando nel mondo buio una diversa appartenenza dell’essere. La letizia è un linguaggio di sguardi ed è potentemente eversiva, poi aggiungeva “cerca le cose essenziali, vivi con semplicità le relazioni, cura gli affetti, ama la vita,” e questi sono i valori essenziali per non smarrirsi in un mondo che cambia in continuazione.
Con l’immaginazione rivivo i piacevoli momenti delle passeggiate… Erano calde giornate di giugno, in assenza di aliti di vento. Il fogliame del bosco era gonfio di linfa, fitto e verde, solo qua e la cadeva qualche foglia ingiallita. I cespugli della rosa silvestre si presentavano coperti di fiori odorosi e nelle radure un mare di trifoglio da miele. La segale folta, alta, scuriva e ondeggiava, giunta ormai a metà maturazione, nei roveti i merli si chiamavano l’un l’altro, nell’avena e nella segale i fagiani ora chiocciavano, ora trillavano, il codibugnolo nel bosco solamente di tanto in tanto lanciava il suo canto e poi s’azzittiva.
Un giorno vidi la nonna seduta sull'erba che masticava mughetti: “sono buoni?” le chiesi, “sono buonissimi per chi è affaticato” lei mi rispose, poi aggiunse "e stasera, per cena, qualcosa di ancora più efficace per il batticuore, i finocchietti". La nonna assaggiava del mughetto solo il fiore, perché le bacche rosse, sono tossiche, si formano finita la fioritura ed hanno un cattivissimo odore a differenza del fiore che anche a distanza emana un gradevole e penetrante effluvio.
Le nostre nonne per il benessere, fino a qualche decennio fa ricorrevano ad antichi rimedi, con la modernità molti di questi sono stati dimenticati.
Mia nonna la sapeva lunga a proposito di rimedi curativi, raccoglieva radici, bacche e fiori, con cui preparava intingoli e intingoletti.
Nella sua credenza non mancavano mai i petali freschi o essiccati di papavero con cui preparava una tisana dalle proprietà terapeutiche sedative, decongestionanti ed espettoranti. Diceva lei con aria briosa e un pò mistica “il papavero tra i tantissimi fiori che crescono spontanei è sempre quello che fa più chiasso”, voleva con questa espressione lasciare intendere che tra i fiori era quello che richiamava maggiormente l’attenzione, e di certo aveva ragione, i suoi petali di colore rosso acceso, danno il sorriso al verde dei campi di graminacee. Altre erbe presenti nella credenza di mia nonna e dalle molteplici virtù benefiche erano i fiori di camomilla essiccati, le foglie di menta piperita, le bacche di ginepro, i semi di finocchietto silvestre.
La natura, fornisce anche toccasana buoni per la pelle, che dai nostri nonni la si voleva bianca e lucida, ritenendo la pelle scura e abbronzata un segno di popolanità propria delle contadine. Le nostre nonne raccoglievano la linfa della vigna ancora verde in un vasetto ben pulito, per spalmarla poi, in modiche quantità, sulle macchie della pelle. I chicchi ancora verdi dell' orzo, stemperati nel latte, davano un liquido lattiginoso che veniva impiegato per togliere le impurità delle pelle, rendendola così più lucente. La lanugine che riveste la parte interna del baccello delle fave verdi veniva sfregata ogni sera sul viso per ravvivarne il colorito. La farina di fave mischiata con il latte tiepido rendeva più chiara la pelle, togliendo quelle antiestetiche macchie che si formavano dopo la continua esposizione al sole.Un altro cosmetico si otteneva raccogliendo ed essiccando la malva che si faceva poi bollire col decotto di piantaggine, con la lozione ottenuta si detergeva la pelle macchiata dal sole, risultando così più luminosa.
Oggi si ricorre sempre di più ai rimedi con le erbe, forse sarà una tendenza del momento, forse semplicemente un'esigenza dovuta alla voglia di tornare alle buone vecchie cose di una volta.
È comunque opportuno un consiglio iniziale, le erbe fanno sicuramente bene in moltissimi casi, ma infusi e decotti vanno assunti con cognizione, ed è bene rivolgersi sempre ad erboristi.
La semplicità della natura può a volte risolvere i problemi della salute, perché noi siamo natura, la natura è intorno a noi e il nostro bene è natura.