sabato 23 ottobre 2010

'Tavern e cantin'

Nei primi decenni del ‘900 San Bartolomeo era un paesino tra le dolci colline del Beneventano, punteggiato qua e la da pagliai, casupole e poche masserie vecchie di secoli, tra boschi di querce e secolari ulivi che con i loro rami tortuosi di notte sembravano anime imploranti che protendevano le braccia alle stelle.
Il paesino appariva disseminato di catapecchie, la gente vestiva per lo più con stracci grezzi, a sera la fievole luce del focolare rendeva piacevole la conversazione, vi era comprensione e anche se a tavola c’era sempre la solita polenta di mais si era particolarmente uniti e il cuore era quasi sempre caldo di amore.
Le ‘tavern’ erano ricetti per la notte, dove da sotto la tettoia si intravedeva il cielo stellato, si dormiva nelle mangiatoie di legno sul fieno odoroso, al caldo dell’alito dei cavalli che sbuffando cercavano un po’ di fieno. Ricoveri dove si trovavano zingari, briganti, mercanti, dove i suoni erano costituiti unicamente dallo sbuffare, dal rimestare nella paglia e dal nitrire rabbioso e stridulo dei cavalli che bisticciavano per una manciata di avena.
Se per un momento cercassimo di concepire con la fantasia quell’epoca, ci ritroveremmo tra case in pietra, vicoletti strettissimi e pieni di lerciume dove non si saprebbe in che direzione volgere gli occhi e il naso per la porcheria, porcelli attorniati da sciami di mosche, galline razzolanti nel fango, muli scalcitanti sull’acciottolato, e in questa cornice vedremmo chi arriva alla ‘tavern’ col proprio carretto, o a dorso di mulo per fare affari in borgo.
Di ‘cantin’ ve n’erano di scalcinate e di accoglienti, offrivano piatti semplici e genuini che venivano accompagnati dai boccali di vino.
A ‘cantin’ di ‘zia Celestin’, essenziale, semplice, era una delle antiche locande con la storica cucina e le pentole di rame, le botti piene di vino, i tavoli in legno di noce e le sedie impagliate, i boccali in creta in cui bere il prezioso nettare d’uva.
‘Zia Celestin’ con le sue ricette ha scandito i ritmi di vita di molti personaggi della nostra terra, le sue ricette semplici e genuine, confezionate con pochi prodotti a disposizione, ma non per questo meno gustose, evocavano odori e sapori di un tempo passato.
A ‘cantin’ di ‘zi Giorg’ era un coloratissimo angolo di gastronomia del paesino, testimone d'ambienti, profumi e sapori genuini. Il lunghissimo tavolo di noce, il ciocco di legno che scoppiettava sotto la grande cappa del camino dove alla catena era sempre attaccato un pentolone, in cui bolliva a gran fuoco carne di ogni qualità. Il rame da cucina ricopriva i muri imbiancati di calce ingiallita dal fumo del focolare, da lucerne ad olio e da fumose candele di sego che spandevano insieme alla loro fioca luce un acre odore, nella parete di contro imperava lo scaffale ad archetti e colonnine, con disposti sui ripiani i boccali e i tegamini in creta . Il vino si beveva, per accompagnare qualche bruschetta, i fagioli con le cotiche, i ‘turcinell’ di fegato, a ‘zuppett’ di peperoni, la polenta con i ceci, o meglio si mangiava anche, per accompagnare l’eccellente vino.
Una scena che univa le due cantine era quella di ubriaconi che boccale dopo boccale, tra risate e arringhe affumicate finivano con il dimenticarsi delle brutture della vita, di ubriaconi che barcollavano per ritirarsi a casa e non ricordandosi la porta finivano con l’addormentarsi su qualche ‘jafio’, o visto il freddo si infilavano carponi in qualche ‘roll’ per passare la notte col porcello, al quale prima di addormentarsi finivano col raccontargli qualche storiella e cosi tra il russare e il grugnire faceva mattino.
Poi c’era la ‘ciculatera’di ‘zia Gemm’ dove si poteva consumare, oltre al cioccolato caldo in tazza, il caffè, i cordiali, i dolciumi e i biscotti. E dove ci si intratteneva in interminabili conversazioni e in giochi con le carte.
Da non dimenticare la merceria di ‘zia Clar’, una donna di statura piccola, vestita con una camicetta nera ricamata e una gonna di lana grigia, con la pelle del viso di colore roseo, la fronte stretta e solcata da piccole rughe, gli occhi piccoli e briosi sotto degli occhiali delicati, le labbra sottili, il mento appuntito e gli zigomi paffuti. Nella sua merceria, si trovavano calze, elastici, lana, bottoni, camicette, maglie, spolette e tantissime piccole cose. Sul bancone di legno vi erano un paio di barattoloni di vetro, uno con caramelle assortite e l’altro con liquirizia. La tonalità della sua voce era silenziosa e nello stesso momento piacevole, era una persona di una dolcezza infinita.
C’era anche ‘zi Attilii tabacc’ di statura piccola e cicciotello, nel vicoletto sempre il solito nauseante odore della pece. Poi c’era la sartoria di ‘zi Guid tabacc’, minuscola, con un tavolo in legno scuro, la squadretta in legno, le forbici grandi, la macchina per cucire, era una persona sottile nei lineamenti e nei modi.
Lardo, trippa, farina gialla, candele, olio da ardere, carbone vegetale, a quei tempi il paniere della spesa era davvero povero, si spendeva quel poco per avere l’essenziale, se qualcosa restava si riponeva sotto il mattone per i momenti peggiori. La carne si mangiava poche volte l’anno, si bolliva per renderla più tenera. Si mangiava poco e male e tantissimi erano i bambini denutriti che nonostante a volte si contendevano una mela marcia con un cane randagio, o si rincorrevano affondando i piedi nudi nelle pozzanghere, o sui cumuli di letame stallatico sapevano essere sempre allegri come tutti i bambini di questo mondo.
In inverno, fuori la porta fischiava il vento e dentro crepitavano i ciocchi nel camino, la cui flebile luce portava la quiete. Quanto si è perduto di tutto questo! Per essere intimamente felici non c’è bisogno di avere di più, siamo già soffocati da troppe cose, sempre meno utili. C’è bisogno di vivere di più e di essere più pienamente se stessi, poi alla fine della giornata la coscienza sarà li, disposta a disquisire con noi e solo lei potrà darci la più sincera buonanotte.

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